Ultim’ora, “Vietato pubblicare su Facebook”: 1 anno di reclusione e 1.302 euro di multa | Passata la legge

Pericoli su Facebook (web) - moralizzatore.it
Pericoli su Facebook (web) – moralizzatore.it

Un post innocente su Facebook potrebbe costarti molto più di qualche “mi piace” mancato.

La tastiera si trasforma in un’arma, le parole in proiettili capaci di infliggere ferite profonde, e ora, anche sanzioni penali severe.

Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha tracciato un confine netto tra la libertà di espressione online e la responsabilità per ciò che si pubblica.

Dimenticatevi la credenza che il web sia una zona franca: diffamare qualcuno su Facebook ora ha un prezzo salatissimo.

Un anno di reclusione e una multa di oltre mille euro: è questa la nuova realtà per chi usa il social network con leggerezza offensiva. Ma cosa ha portato a questa svolta e quali sono i dettagli di questa storica decisione?

Una pena severissima

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2723 del 20 gennaio 2017, ha sancito un principio fondamentale: diffondere messaggi denigratori tramite Facebook configura il reato di diffamazione aggravata. La motivazione è chiara e inequivocabile: la natura stessa del social network, con la sua capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, amplifica enormemente la portata lesiva di un messaggio offensivo. Il caso specifico da cui è scaturita questa importante pronuncia riguarda una donna condannata per aver diffamato un’altra persona pubblicando un messaggio offensivo sulla sua bacheca Facebook. La difesa contestava l’attribuzione degli SMS diffamatori e l’oggettività della diffusione del messaggio su Facebook. Sosteneva che l’IP potesse essere condiviso e che la valutazione della diffusione fosse soggettiva. La Cassazione ha respinto tali argomentazioni, richiamando la giurisprudenza che considera la potenziale diffusione a un vasto pubblico come elemento sufficiente per la diffamazione aggravata online. L’accessibilità del profilo a un numero considerevole di persone è stata ritenuta prova della diffusione.

La difesa contestava anche la mancanza di dolo specifico, ipotizzando un intento chiarificatore anziché offensivo. La Cassazione ha ribadito che per la diffamazione è sufficiente il dolo generico, ovvero la consapevolezza dell’offensività delle espressioni nel contesto sociale. Nel caso in esame, la relazione tra O. e il compagno di D.L. rendeva O. consapevole della natura denigratoria del termine usato (“cornuta”) e delle sue conseguenze. Infine, la difesa aveva sollevato la mancata applicazione della tenuità del fatto, ma la Cassazione l’ha ritenuta inammissibile perché non presentata in appello. Inammissibile anche la diversa interpretazione del termine “cornuta”, considerata una rivisitazione nel merito e potenzialmente discriminatoria.

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Una lezione da imparare

Questa sentenza segna un punto cruciale nell’uso dei social media. La pubblicazione di contenuti diffamatori online non è più un atto impunito. La vasta platea di Facebook equipara la sua diffusione ad altri media, giustificando l’aggravante.

La condanna a un anno e 1.302 euro di multa è un chiaro avvertimento: la libertà di espressione digitale ha limiti precisi, e superarli può avere gravi conseguenze legali. Prima di pubblicare, è essenziale considerare attentamente il peso delle parole.